Piccola storia realmente accaduta

Una mattina di dicembre 2015, durante il periodo delle vacanze di Natale, suona il campanello.

Noi avevamo la casa sottosopra, i gemelli avevano appena tre mesi, erano appena arrivati i miei dalla Toscana.

Vado ad aprire io con Emma in braccio. Si palesano alla mia vista tre donne sulla quarantina con tre o quattro bambini tra i cinque e i dieci anni.

“Buongiorno.” faccio io.

“Oh buongiorno, che bella bambina.” mi dice la più alta delle tre (per questo la chiamerò la Spilungona).

“Grazie.”

“Senta siamo per conto della Parrocchia e stiamo chiedendo gentilmente cibi per i bisognosi in vista del Natale. Se volete regalarci qualcosa.” mi dice sempre lei, autorevole e centrale tra le tre.

In quel momento spunta davanti alla porta Stefano con in braccio Giacomo.

“Oh che bello ma ce ne sono due!” Tutte in coro.

“Ma sono gemelli?” ci chiede una.

“Sì, sono gemelli.” rispondo.

“Ma anche voi siete gemelli?” ci chiede uno dei ragazzini.

“No, noi siamo i due papà.” risponde Stefano.

La Spilungona molto allarmata interviene tempestiva quasi a silenziare Stefano: “no no no per favore, come glielo spiego poi io?”

E Stefano: “ma non c’è niente da spiegare.”

E lei con disappunto: “No. No. Per favore.”

I bambini non si accorgono di nulla, continuano a ridere e giocherellare con i gemelli. Le altre due signore zitte.

Fanno per andarsene quasi frettolosamente e io le fermo: “aspettate dobbiamo darvi qualcosa.”

Corro in dispensa e prendo alla rinfusa qualche torrone, un pandoro e qualcos’altro che ora non ricordo e torno alla porta.

“Tenete questo è da parte nostra.”

“Grazie.”

“Grazie.”

“Grazie.”

“Grazieeeee.” aggiungono i bambini.

Se ne vanno e chiudiamo la porta.

Un paio di settimane fa, a distanza di nove mesi, ci è capitato un secondo nuovo incontro. Siamo andati a fare una passeggiata in centro con i gemelli e mia mamma e nel tardo pomeriggio siamo rientrati a casa con il tram. Scendiamo alla nostra fermata, con un impegno e una durata sopra la media, causato dal dover tirare giù pure il passeggino doppio con quei 25 kg dentro.

Mentre scendiamo una signora si separa dal figlio ragazzino:

“vai a casa tu intanto.”

“Mamma ma sei sicura? E se ti trattano male?”

“Vai vai tranquillo”

Si son detti in quel mentre, avremmo poi scoperto dopo.

Una volta fuori ci si avvicina e rivolta a me dice:

“Scusa voi forse non vi ricorderete di me. Scusate se vi disturbo, mio figlio dice che dovrei evitare, ma devo parlarvi.”

“No, non ricordo. Dimmi”

Nel frattempo mamma e Stefano avevano già fatto capannello intorno.

“Io sono una di quelle tre signore della parrocchia che aveva bussato a casa vostra l’anno scorso.”

“Ah sì adesso ci ricordiamo.” diciamo Stefano ed io.

“Ecco sono imbarazzata, ma io ho un peso nello stomaco che mi porto dietro e devo parlarvi. A te (rivolta a me) ti ho visto l’altra mattina al bar e volevo fermarti, ero con una mia amica che mi ha detto ‘ma và, dove vai.’

Io devo chiedervi scusa.”

Noi la ascoltiamo e lei a raffica continua a sfogarsi:

“Vi chiedo scusa per quel brutto episodio. Io mi sento in colpa per non avere detto niente al momento, ero impreparata, non ce l’ho fatta. Ma io non sono d’accordo con quella signora (la Spilungona) che era con me. Mi sento come quelli che quando c’era il fascismo stavano zitti e non lo condannavano, anche se erano contrari.”

“Dai esagerata, per così poco.” le dico

“Grazie. È importante quello che ci dici.” dice Stefano.

E lei riprende: “ci sono stata molto male. Mi è capitato per caso di vedere la vostra intervista a Sky qualche mese fa e è stata utile. Mi ha fatto capire ancora di più, ma mi sono sentita ancora più in colpa.

Con quale diritto uno che suona a casa tua può lanciare segnali di giudizio e di disprezzo verso la tua famiglia? Mi sono chiesta questo, se fosse avvenuto il contrario, se fosse stati voi a venire a casa mia e ad avere quel comportamento io come mi sarei sentita?”

“Bene. La conoscenza è la miglior cosa per capire le cose. È sempre stato così.” le rispondiamo con robe del genere.

“Infatti ho mandato via mio figlio e gli ho detto intanto di andare a casa, perché io devo risolvere assolutamente questa cosa. Ci sono stata malissimo.

Vi ho pensato tanto.” aggiunge lei

“Come ti chiami?” le chiedo.

“Paola. Voi Stefano e Claudio, giusto?”

“Sì.”

“Se ti va scambiamoci il numero così un giorno passi da noi per un caffè.” le dico

Ci scambiamo i numeri, prosegue una chiacchierata fra lei e mia mamma in cui lei racconta che una sua amica ha da poco scoperto che il fratello è omosessuale e non sa cosa fare. Mia mamma le dice di rassicurare l’amica e racconta la sua personale esperienza con me.

Ci salutiamo calorosamente.

Ieri mattina verso le 8.30 la incontro di nuovo, fermi al rosso di un semaforo, in una via del nostro quartiere.

Ci salutiamo come due vicini che si stanno simpatici, mi racconta che l’aspetta una giornata incasinata, che gravita tutta intorno alla gestione dei tre figli, anche io le racconto il nostro quotidiano incasinato.

Poi ci salutiamo al verde, quando ognuno va per una strada diversa.

“Ricordati ti aspettiamo.” le dico.

“Sì mi ricordo. Posso portare anche la mia amica che ha il fratello gay così magari le fa bene?”

“Certo. Ciao buona giornata.”

“Anche a te.”

 

Claudio Capocchi

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