Il pane di Milano
Parliamo di pane.
Crostini, gallette, crackers, grissini e ciabatte croccanti sono i surrogati del pane ai quali mi sono piegata quando sono venuta a vivere a Milano. Ho detto addio alla scarpetta, addio alla mano che fruga felice nel sacchetto del pane per prenderne un pezzettino da mangiare fuori pasto, e sono andata avanti come se nulla fosse.
Anni fa ci ritentai e con i punti dell’Esselunga mi regalai la macchina per fare il pane. Ce l’aveva una mia amica.
“In sole tre ore ti sforna un pane in cassetta come quello dei cartoni animati.”
Sì è vero, ma poi quel chilo di pane te lo devi mangiare in due giorni se no diventa secco. E così mi ingegnai e imparai a fare i panini piccoli da congelare e scongelare all’occorrenza, solo che si sa il freezer è un buco nero interstellare.
Stasera, chissà perché, mi sentivo ottimista e ho comprato il pane.
“Mi dia quello lì. No, non quello. Quell’altro. Sì, sì è lui.”
Stasera ho scelto un pezzo di pane che sembrava proprio bello, che dalle mie parti vuol dire buono.
Ma quando a cena l’ho spezzato in due, lentissimamente, sollevandolo in alto, come fosse un gesto di sacrale, ho scoperto che era un po’ secco.
Sì lo so che a Milano c’è Princi, c’è Longoni, c’è Eataly, ma io non voglio il pane di lusso. Io vorrei entrare in una panetteria qualsiasi e prendere un panino a caso ed essere sicura che sia bello e buono.
Ora lo so che voi direte che non è vero, che la panetteria sotto casa vostra fa un pane buonissimo.
E io non ho alcuna intenzione di contraddirvi.
Fuori i nomi.
Immagine: Urs Fische, la casa del pane. Triennale di Milano
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